"Forse aveva ragione Samuele quando mi disse che ogni museo del mondo dovrebbe avere un Picasso e ogni museo del mondo dovrebbe avere un Follegeniale, perché Picasso è uno di noi". A affermarlo e' Maddalena Fiorentini, accompagnata da Samuele Frosio, figlio del fondatore del Museo dei Follogeniali di Lodi, Angelo, nella visita alla struttura, che ospita le opere degli artisti della scuola d'arte Bergognone, nate per creare alternative alla solitudine.
La scuola nasce grazie ad Angelo Frosio, un artista e tecnico caseario che nel 1975, appena trasferitosi per lavoro, scelse di aprire le porte di casa sua a chi aveva bisogno dell'arte come strumento attraverso cui poter convivere con le proprie difficoltà. Questi risultarono essere maggiormente persone con disabilità e/o disturbi fisici e psichici, dunque, al tempo Frosio è stato un pioniere, in quanto non vi era alcun libretto di istruzioni sul come essere di sostegno alle persone bisognose.
Nel suo viaggio, raccontato sul 'Bullone' - il mensile dell'omonima Fondazione dedicata ai B. Liver, i ragazzi che vivono o hanno vissuto il percorso malattia - Maddalena è accompagnata, oltre che da Samuele, da Matteo Vecellio, direttore del museo. Varcando la soglia dell'edificio, ricorda, Samuele mi dice di guardare il soffitto: «Ti presento i Folligeniali», ed ecco che lì appesi ci sono almeno quaranta autoritratti degli artisti. "Questa è la nostra fragilità», mi dice, «i folligeniali sono un gruppo di persone fragili o non fragili, anche se alla fine siamo tutti fragili». Il museo è suddiviso in sezioni e la prima sezione riguarda il sacro e il rifiuto. Samuele mi racconta: «Noi siamo molto legati al sacro.
I rifiuti sono la croce della Terra e il rifiuto umano è una grande potenzialità». L'idea del non rifiuto appartiene alla scuola, accogliendo coloro che per la società non esistono. «La solitudine uccide e la Bergognone è un vaccino contro la solitudine», interviene Matteo, «questo è un luogo di socialità». La visita continua, racconta Maddalena, "e mi ritrovo ad osservare il loro manifesto, sulla cui didascalia si legge: dipingere per comprendere e comprendere per dipingere. La scuola non fa arteterapia, vuole essere un luogo di libertà d'espressione. L'opera d'arte è meno importante del processo di creazione, che è ciò che fa sì che il prodotto finale abbia un valore inestimabile".
La vendita sola delle opere non riesce ad essere il mezzo di autosostentamento della scuola. Angelo Frosio, in quanto tecnico caseario, vendeva una parte della sua produzione per mantenere la scuola. Il «Latte» è un'altra delle sezioni raccontate dalla mostra, è il loro nutrimento. La sezione del «Sogno» mostra i traguardi della scuola, segue la sezione dei «Protagonisti», che insieme alla «Stanza dei Maestri», aiuta il visitatore a comprendere gli abitanti della realtà Bergognone. La scuola si regge sull'impegno dei volontari, vi sono solo una decina di operatori dipendenti. I ragazzi lavorano seguiti da veri maestri dell'arte, che insegnano la tecnica, sempre mantenendo un rapporto da pari. L'uno impara dall'altro. "Questo è un luogo in cui si entra, si resta e si vive», mi dice Matteo. Infine incontro Angelo e con lui conosco il motto della scuola: L'arte è amare. Dopo poco apre un pianoforte e improvvisa una canzone per me. Con lui è chiaro il limite sottile che esiste tra la follia e il genio. Con l'arte la follia diventa genio. «Io ho fondato la scuola, perché ho scoperto che potevo aiutare", conclude Angelo.
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