Keith Jarrett compie l'8 maggio 80 anni e chissà quali pensieri avrà guardando il pianoforte ora che, come ha raccontato in un'intervista choc al New York Times, "con la mano sinistra potrò al massimo reggere una tazzina".
Dal 2018 due ictus ravvicinati lo hanno lasciato con il lato sinistro parzialmente paralizzato: come lui ha detto, di fatto non è più un pianista.
Un triste destino per un musicista che ha fatto del virtuosismo tecnico la chiave di volta di una carriera straordinaria e che già aveva dovuto lottare a lungo con la sindrome da fatica cronica che lo ha tenuto lontano dalle scene per anni.
Per quelle strane coincidenze del destino, in gennaio sono stati celebrati i cinquant'anni del "Koln Concert", il suo disco più celebre e il più grande successo della sua carriera ma, come spesso capita, di sicuro non il più amato dal suo autore che tra l'altro quel concerto non avrebbe voluto farlo: fu convinto a non andarsene quando era già salito in macchina e i tecnici stavano montando le attrezzature.
Fa davvero impressione mettere insieme le parole "Keith Jarrett non è più un pianista": sembra una condanna da tragedia greca per un musicista bizzoso che sicuramente non temeva le conseguenze dell'hybris.
E che però ha sfidato fino in fondo i suoi limiti, portando il concerto di solo piano in una dimensione mai conosciuta prima nella storia del jazz: si può discutere se nella musica afro americana ci siano stati pianisti più grandi o perfino più tecnici di lui ma nessuno prima di lui era riuscito a fare dell'esibizione in solitudine e totalmente improvvisata un evento, culturale oltre che strettamente musicale, capace di travalicare i confini di genere.
I suoi concerti, nei grandi teatri del mondo, Scala compresa, avevano una dimensione paragonabile solo a quella dei più grandi concertisti ma con in più il brivido della sfida e del brivido di veder deragliare un artista che faceva impazzire gli organizzatori e dava di matto per una poltrona che scricchiolava, per un colpo di tosse, che non voleva applausi troppo calorosi tra un brano e l'altro prima della fine dell'esibizione e che è stato capace di suonare al buio perché quella sera provava fastidio per le luci di scena: tutto, anche quello che noi umani non siamo in grado di percepire, poteva disturbare il fluire creativo della sua musica, quelle cattedrali di suoni che ne hanno fatto un divo e uno dei più importanti musicisti degli ultimi decenni.
I puristi rabbrividivano di orrore nell'osservare la sua postura, l'abitudine di scattare in piedi, di emettere suoni gutturali di piacere, di borbottare le melodie, di battere il tempo con il piede: tutto faceva parte dell'"evento", immancabilmente costruito su una capacità unica di fondere la grande tradizione degli Standard del Jazz con la musica classica, il folk, il Gospel.
E a proposito di Standard, in questo ambito ha toccato vette altissime con il trio formato con Gary Peacock al contrabbasso e il suo vecchio amico, fin dagli anni '60 Jack DeJohnette, batterista sommo, un gigante dello strumento che con il suo stile orchestrale ha dato un contributo decisivo a portare questa formazione ad aggiornare la lezione di Bill Evans, che resta il modello fondamentale e probabilmente insuperato per il trio jazz.
La carriera di Keith Jarrett non si esaurisce con i concerti di solo piano o con lo Standards Trio: c'è il cursus honorum con Charles Lloyd, con l'incredibile fucina di nuovi talenti guidata da Art Blakey, poi le esperienze con il quartetto americano e quello europeo.
Come sempre un capitolo a parte lo merita Miles Davis. Miles lo ascoltò dal vivo e gli chiese di suonare con la sua band: era già il periodo della "svolta" e così Jarrett si trovò a suonare il piano elettrico e l'organo, alternandosi con Chick Corea. Erano strumenti che detestava, lui che viveva in simbiosi con il pianoforte. Ma suonare con Davis era troppo importante anche per lui: e poi tutti sapevano che mettersi a competere con l'ego di Miles era uno sforzo inutile.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA