(di Marzia Apice)
"Non dico che il Giorno della Memoria
non abbia significato, ma c'è malessere nell'ebraismo italiano.
Il problema è affrontare la memoria insieme a chi continua a
imbastire una narrazione malevola e menzognera e si ricorda il
27 gennaio che gli ebrei meritano una mezza giornata di
rispetto. A noi questo non interessa": a pochi giorni dalle
celebrazioni del Giorno della Memoria, non nasconde l'amarezza
Mario Pacifici, autore del libro per bambini "La porta aperta",
albo illustrato con i disegni di Lorenzo Terranera, edito da
Gallucci. "La comprensione per la tragedia della Shoah non può
coprire l'indifferenza per la sofferenza di chi giorno dopo
giorno deve combattere per sopravvivere contro un terrorismo
implacabile", afferma all'ANSA l'autore, che ha scritto questo
libro per raccontare la vicenda accaduta a sua madre e sua zia,
le gemelle Marina e Mirella Limentani, scampate alla
deportazione il 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento del
Ghetto di Roma, grazie all'aiuto inaspettato di un militante
fascista, Ferdinando Natoni: l'uomo, che per questo gesto di
coraggio e umanità fu insignito nel 1994 del titolo di Giusto
tra le Nazioni, permise infatti alle due sorelle di entrare in
casa, facendole passare per sue figlie, senza curarsi di mettere
a repentaglio la propria vita e quella della sua famiglia.
A 80 anni dall'abbattimento dei cancelli del lager di Auschwitz,
nel clima di tensione di questi mesi, tra l'orrore della guerra
a Gaza, le migliaia di morti e i rigurgiti di antisemitismo,
preservare la memoria sembra più difficile, quasi come se il
ricordo della ferocia nazista apparisse "offuscato" e le
celebrazioni ridotte a mero rituale. "C'è troppa
disinformazione. Quella di Gaza è una tragedia senza misure, con
decine di migliaia di morti. Ma i media che danno credito alla
narrativa di Hamas forniscono al pubblico una conoscenza
alterata di ciò che accade", dice Pacifici, "Hamas, Hezbollah,
Houthi non vogliono terra in cambio di pace, ma solo cancellare
Israele dalla cartina geografica. Lo dicono loro e lo dice
l'Iran". Dal suo punto di vista, come si può superare questo
clima di odio? "Mi piacerebbe avere una ricetta per cambiare le
cose: la situazione si cambia se la verità emerge sulla
menzogna. Sentire dire, anche dai vertici della Chiesa, che
Israele potrebbe essere colpevole di genocidio per noi è un
trauma. Ma le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi, e
fanno danni perché possono muovere i sentimenti nella direzione
sbagliata". La vicenda accaduta a sua madre e sua zia ha
accompagnato Pacifici per tutta la vita, poi, è nata l'esigenza
di consegnare questa storia agli altri, pensando a un libro
destinato ai più giovani. "Ho pensato a lungo se raccontare
questa storia, perché la vicenda di mia madre si è intrecciata
con la tragedia di centinaia di famiglie trascinate fuori dalle
loro case per essere inviate alla morte nei campi nazisti. Non
era una storia a lieto fine", afferma l'autore. "Non so quante
volte mia madre mi ha raccontato ciò che accadde quel giorno,
tanto che i suoi ricordi sono diventati i miei. E' come se
avessi sentito io il battere degli stivali dei tedeschi che
salgono le scale del palazzo, e provato io quella disperazione",
racconta, "a scriverne mi ha convinto l'editore Gallucci,
chiedendo di rivolgermi ai ragazzi. La sfida è stata raccontare
ai più giovani che il male non è senza soluzione, e che ognuno
può trovare dentro di sé il modo di contrastarlo: come i Giusti,
che scelgono il bene senza lasciarsi coinvolgere da malvagità e
ideologie". "La porta aperta", che l'autore e l'editore sono
pronti a presentare nelle scuole, ha senza dubbio il merito di
riuscire a comunicare un messaggio forte con un linguaggio
semplice, fluido e accurato, anche grazie all'impostazione della
storia raccontata come una "fiaba" da una nonna ai suoi
nipotini. "Anni fa presentai a Gerusalemme il libro Una cosa da
niente, una serie di racconti sulle leggi razziali", conclude
Pacifici, "in quell'occasione la psicoterapeuta Dina Wardi mi
disse che, in quanto figlio di una sopravvissuta, io ero una
candela della memoria, e mi pregò di non smettere di raccontare.
Secondo lei, quando non ci saranno più testimoni, la loro
funzione sarà assunta dalla letteratura e da chi ha vissuto
l'orrore non direttamente, ma attraverso le testimonianze dei
propri cari. Io quella definizione non l'ho più dimenticata. E
quando racconto della Shoah sento davvero di essere una candela
della memoria".
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