/ricerca/ansait/search.shtml?tag=
Mostra meno

Se hai scelto di non accettare i cookie di profilazione e tracciamento, puoi aderire all’abbonamento "Consentless" a un costo molto accessibile, oppure scegliere un altro abbonamento per accedere ad ANSA.it.

Ti invitiamo a leggere le Condizioni Generali di Servizio, la Cookie Policy e l'Informativa Privacy.

Puoi leggere tutti i titoli di ANSA.it
e 10 contenuti ogni 30 giorni
a €16,99/anno

  • Servizio equivalente a quello accessibile prestando il consenso ai cookie di profilazione pubblicitaria e tracciamento
  • Durata annuale (senza rinnovo automatico)
  • Un pop-up ti avvertirà che hai raggiunto i contenuti consentiti in 30 giorni (potrai continuare a vedere tutti i titoli del sito, ma per aprire altri contenuti dovrai attendere il successivo periodo di 30 giorni)
  • Pubblicità presente ma non profilata o gestibile mediante il pannello delle preferenze
  • Iscrizione alle Newsletter tematiche curate dalle redazioni ANSA.


Per accedere senza limiti a tutti i contenuti di ANSA.it

Scegli il piano di abbonamento più adatto alle tue esigenze.

Il secolo di Paul Newman, divo controcorrente

Il secolo di Paul Newman, divo controcorrente

Un’icona del suo tempo che nasconde la fragilità interiore 

ROMA, 25 gennaio 2025, 10:47

di Giorgio Gosetti

ANSACheck
- RIPRODUZIONE RISERVATA

- RIPRODUZIONE RISERVATA

Nella sua generazione Paul Leonard Newman, l’”uomo dagli occhi di ghiaccio” è stato definito a più riprese l’uomo più bello del mondo. E anche a un secolo esatto dalla nascita, il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights nell’Ohio, darebbe molto filo da torcere ai nuovi divi. Eppure se c’è stata una categoria che lo metteva a disagio era l’etichetta del divo. Paul Newman è cresciuto all’ombra dello star system più rigoroso dettato dagli Studios, ma a quelle leggi si è piegato solo per il tempo necessario a conquistare la fama. Poi ha fatto di testa sua, incarnando una versione tutta sua del ribelle, categoria a cui appartenevano, ciascuno a modo suo, i grandi rivali dell’epoca d’oro di Hollywood: Marlon Brando, James Dean, Steve McQueen. Col primo ha diviso il successo in un’eterna contrapposizione tra partiti opposti; col secondo ha fatto i primi passi ai provini per “La valle dell’Eden” (ma lui fu scartato); col terzo c’era una sola passione in comune – le auto da corsa – e invece una spietata competizione da parte di McQueen che arrivò a farsi allungare le battute ne “L’inferno di cristallo” pur di stare alla pari di Newman.

Paul Newman sarebbe stato un soggetto prediletto per il dottor Freud, ma potrebbe dirci che la vita consente di superare molti dei propri traumi. Suo padre era ebreo, per metà ungherese e per metà tedesco, sua madre un’immigrata dalla Slovacchia. Paul aveva una venerazione per il padre che gestiva un negozio di articoli sportivi, ma non si ritenne mai alla sua altezza; sua madre, predicatrice della Christian Science, lo educò severamente al cattolicesimo ma gli consentì comunque di salire su un palcoscenico ancora giovanissimo. A sette anni già recitava per la scuola in “Robin Hood” e restò nella compagnia amatoriale fino al passaggio all’università.

Nel frattempo però era scoppiata la guerra e il ragazzo scelse di arruolarsi nell’aviazione di marina, ancora per dimostrare qualcosa al padre. Dopo qualche problema alle visite mediche (appariva daltonico) ottenne l’assegnazione alla base delle Hawaii ed era in volo su un aerosilurante quando all’orizzonte vide salire in cielo il fungo della prima bomba atomica. Non ne parlava volentieri e così, appena congedato, si iscrisse a una scuola d’arte drammatica in Ohio per poi passare a New York sotto la guida di Lee Strasberg all’Actors Studio. A New York prese casa assieme alla prima moglie nel 1951 e bussò alle porte di Broadway e delle tv anziché prendere la via di Hollywood come gli consigliavano gli amici. “Troppo vicini alla torta – disse una volta – e poi lì non c’è mai tempo per studiare”.

Aveva l’ossessione per il mestiere e Strasberg gli aveva inculcato il”metodo” come una religione di cui fu adepto incrollabile fino alla maturità. Nel ’53 debuttava a Broadway con “Picnic” (poi portato anche al cinema) e nel retropalco conobbe Joan Woodward che cinque anni dopo avrebbe sposato diventandone il compagno di una vita nonché l’ammirato partner al cinema come attore e poi anche regista. Intanto Newman si addestrava ai ritmi del set in televisione, metteva il naso a Hollywood nel ’54 con una piccola parte (criticatissima e di cui si vergognò pubblicamente) ne “Il calice d’argento”, incrociò James Dean che sarebbe morto improvvisamente appena l’anno dopo.

Le “sliding doors” della vita portarono Newman a rimpiazzarlo nel ruolo del pugile in “The Battler” (per la tv nel’55), e poi in quello del fighter Rocky Graziano in “Lassù qualcuno mi ama” (Robert Wise, 1956) nello stesso anno in cui portava al cinema anche “Picnic” per la regia di Joshua Logan. Il successo fu travolgente così come tutto il finale del decennio con film rimasti nell’immaginario popolare da “La lunga estate calda” (Martin Ritt) a “Furia selvaggia” di Arthur Penn (altro ruolo scritto per James Dean), da “La gatta sul tetto che scotta (Richard Brooks) a “I segreti di Filadelfia” (Vincent Sherman). Sono tutti suoi i ruoli da introverso, nevrotico, ribelle e disperato in competizione con Marlon Brando, anche se con “Missili in giardino” di Leo McCarey vuole mostrare al pubblico che sa anche destreggiarsi nella commedia.

Nel 1960 con “Exodus” di Otto Preminger sulla nascita dello stato di Israele punta all’Oscar ma nonostante il successo planetario manca clamorosamente il bersaglio. Il rapporto di Newman con le statuette dell’Oscar rimarrà sempre travagliato: a parte due premi alla carriera, uno dei quali per meriti umanitari, lo vincerà una sola volta dopo ben nove candidature. Ma la sera in cui lo vince, nel 1987 con “Il colore dei soldi”, Newman non c’è per scaramanzia. Nel 1961 invece, con “Lo spaccone”di Robert Rossen, diventa definitivamente il divo immortale capace di traghettare la generazione ribelle degli anni ’50 nel tempo nuovo che, al tavolo da biliardo, riassume una metafora della vita. Per tutto il decennio esplora ogni tipo di ruolo, come in una tenace sfida a se stesso, centrando almeno un paio di capolavori: “La dolce ala della giovinezza” e “Hud il selvaggio” nel suo campo di gioco preferito (il dramma psicologico) o in coppia con il regista che meglio ne ha messo in luce le doti e gli assomigliava per insofferenza alle convenzioni: Martin Ritt. Lo dirige anche Hitchcock (“Il sipario strappato”) ma tra i due la scintilla non scocca perché il maestro del brivido non ama le sottigliezze alla Actors Studio. Poi la vita di Newman conosce tre svolte determinanti: dirige per la prima volta con Joan Woodward protagonista (“Rachel Rachel”, 1968) seguito nel ’72 dalla sua regia più personale e applaudita “Gli effetti dei raggi Gamma sui fiori di Matilda”; nel 1969 incontra Robert Redford (dopo il rifiuto di Steve McQueen) sul set di “Butch Cassidy” di George Roy Hill e qui nasce una coppia da sogno confermata dal trionfo de “La stangata” nel 1973; infine scopre il mondo dell’automobilismo interpretando “Indianapolis pista infernale (1969).

“Da ragazzo ero un mediocre giocatore di football – racconterà – pessimo pugile e una schiappa come sciatore; da adulto mi sono detto che con un volante in mano potevo fare un po’ meglio”. Diventerà corridore vero tra Le Mans, Indianapolis e Daytona, fonderà una scuderia, correrà fino a 80 anni. Anche negli anni ’80 mieterà successi come “Diritto di cronaca”, “Il verdetto”, “Il colore dei soldi”, dimostrandosi una leggenda vivente fino al passo d’addio –memorabile – con “Era mio padre” di Sam Mendes (2002). Per la coerenza tra lavoro e vita (il matrimonio inossidabile, l’impegno sociale e umanitario, le chiare convinzioni democratiche in politica) resta un’icona del suo tempo che nasconde la fragilità interiore e il dolore segreto come quando perde il figlio Scott morto di overdose nel 1978 e si sente colpevole. Ma quando sullo schermo ci guarda dritto con gli occhi azzurrissimi e la cangiante ironia che in un attimo si trasforma in dolore, rabbia, paura, voglia di felicità, tutti sentiamo di essere di fronte a un gigante. 
   

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

Da non perdere

Condividi

O utilizza