(di Paolo Petroni)
ANDREJ LONGO, ''UNDICI'' (SELLERIO,
pp. 244 - 15,00 euro) - A distinguere e rendere vera, credibile,
assieme forte e poeticamente delicata la narrativa di Andrej
Longo è la voce, il tono, la misura della sua scrittura: un
italiano asciutto, pulito, di pochi avverbi e aggettivi per un
parlato scarno, ritmato, magari con qualche eco di napoletano,
per raccontarci senza una parola di superfluo, o meglio in
genere farci raccontare da io narranti femminili, una città dove
sembrano non esistere più confini tra normalità e prepotenza e
la lotta quotidiana e la miseria coabitano con un cercar di
vivere, di sopravvivere alle difficoltà famigliari e sociali
dell'essere donna.
Gli inizi di vari di questi undici racconti (che arrivano
quasi vent'anni dopo i ''Dieci' che richiamarono l'attenzione su
questo scrittore, appena ristampati anch'essi da Sellerio) sono
sincopati, incisivi, un succedersi di frasi brevi che
introducono in un lieve crescendo al nodo della questione, che
riguarda spesso situazioni limite, che prevedono una fine o un
addio, mentre uno dei temi di fondo resta il tempo, il passare
del tempo e il disagio, reale ma anche metaforico, di sentirsi
sempre in ritardo.
Undici racconti slegati eppure che finiscono per essere
tessere di una sorta di reportage in presa diretta di un disagio
e una sofferenza che, in questi venti anni, a Napoli sono andati
acuendosi grazie anche alla presenza della camorra. E così già
nel primo, l'esemplare La vita che volevo, che si apre con la
frase ''A volte me lo chiedo'' a proposito dei dubbi sul futuro
che si prospetta ai propri figli hanno Teresa e Rosa, che si
erano trovate a sposare due che si danno arie da 'o malamente,
piaciuti perché sapevano farsi rispettare e le fanno vivere come
signore, ma ora sono passati anni e sono diventate mamme. Sanno
infatti anche loro come l'Irene di Per donne sole che la
violenza può essere estrema, se arriva a uccidere un bambino di
nove anni, ma in questo caso quando lei ha in mano l'assassino
del figlioletto non riesce a vendicarsi come dovrebbe fare:
''L'amma a uccidere a 'stu uaglione o vulimmo provà a cagnà 'sto
munno?'', soltanto che in questo caso si tratta solo di una
recita per uno spettacolo teatrale.
Insomma una è la realtà, un'altra la sua rappresentazione con
spirito di riflessione e denuncia. Lo scopre a proprie spese la
Luisella de La sedia, che spostando la sedia con cui un boss
occupa lo spazio nel vicolo per il parcheggio, arriverà a
provocare l'assassinio del padre che prova a difenderla dalla
prepotenza violenta che le arriva addosso. Mentre per ora, in Il
matrimonio, è solo un sogno quello di Maria che a solo sette
anni sa già come vanno le cose e allora nel sonno vede la fine
che toccherà a sua sorella che si rifiuta di sposare l'uomo
impostole per patto di pace tra famiglie nemiche.
Un'esistenza su cui pende sempre il timore dell'uso del
coltello o della pistola senza guardare in faccia nessuno. Se
talvolta a questo si ricorre per disperazione, per la vita che
si fa, come la madre panettiera con tre figlie che scopre
molestate dal marito e allora lo uccide, altre è persino la
povertà e l'arrangiarsi che creano situazioni dure e strazianti,
come quella della piccola cinesina Mei, cresciuta per cinque
anni con una mamma napoletana cui la sua, costretta a lavorare
quasi in schiavitù per ripagare il costo del suo viaggio
clandestino in Italia, l'ha affidata sparendo e ora, libera, la
rivuole.
Poi c'è Sera, con la vita ''niente da raccontare, non so se
bella o brutta'' di una povera badante col figlio rimasto nel
suo paese che una domenica raccogli vicino a un cassonetto un
libro con scritto Anna, che è anche il suo nome, in copertina e
poi con gran sforzo prova a leggerlo e imparerà così a memoria
versi della Achmatova e reciterà appunto Sera al suo vecchietto,
che si commuove. E' il modo di Longo di farle scoprire e farci
rivelare la forza della poesia e delle parole.
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