Un'incredibile storia vera molto poco
conosciuta: è quella di Raffaele Minichiello, nato in Irpinia e
cresciuto negli Usa, protagonista il 31 ottobre 1969 un giorno
prima del suo 20/o compleanno, del dirottamento di un aereo
della Twa partito da Los Angeles e diretto a San Francisco.
Minichiello chiede di essere portato in Egitto, ma la meta
finale sarà Roma, per quello che risulta il dirottamento più
lungo della storia dell'aviazione. A dedicargli un ritratto è
Alex Infascelli con il documentario Kill me if you can, che dopo
il debutto alla Festa del cinema di Roma, arriva in sala con
un'uscita evento dal 27 febbraio al 1 marzo con Wanted. "Sono
molto felice che il film arrivi nei cinema, questo fra i miei
documentari (S Is for Stanley', su Emilio D'Alessandro,
l'autista italiano di Stanley Kubrick, film non fiction premiato
con il David di Donatello e Mi chiamo Francesco Totti, vincitore
del Nastro d'argento) è in assoluto il più cinematografico",
spiega all'ANSA Alex Infascelli, regista versatile che ama
variare fra i generi e i formati. "Quando ho saputo della storia
di Raffaele la prima cosa che ho pensato è stata: 'Eccone un
altro che cerca un padre o vuole gratificarlo'. Per Emilio
D'Alessandro è stato Kubrick, per Francesco Totti è stato il
papà Enzo. Per Raffaele i padri sono più di uno, il suo
biologico, l'America e Dio a cui si rivolge da un certo punto
della sua vita in poi per cercare risposte". Kill me if you can
(Prodotto da Fremantle Italia e The Apartment, con Rai Cinema)
unisce al filo rosso del racconto di Minichiello (una vicenda
che pare sia stata in parte d'ispirazione a Stallone per la
sceneggiatura di Rambo, ndr), un signore sorridente e garbato
che trasmette un mistero, le testimonianze fra gli altri, di due
dei tre figli, di amici ex soldati, altri protagonisti della
vicenda, compresa una delle hostess su quel volo della Twa. Si
ripercorre così il tragitto di Raffaele, emigrato con la
famiglia negli Usa a inizio anni '60 dopo il terremoto in
Irpinia. Vittima di bullismo e razzismo da adolescente ("Mi
chiamavano mafioso, ma io cosa fosse la mafia l'ho imparato
negli Usa"), si arruola a 17 anni e mezzo per combattere nel
conflitto in Vietnam, anche per sentirsi parte del suo nuovo
Paese. Il trauma della guerra ("probabilmente aveva una sindrome
da stress post traumatico, termine che allora non esisteva"
dicono gli ex commilitoni) e uno scontro per motivi burocratici
con l'esercito Usa lo portano a compiere il gesto estremo del
dirottamento. Arrestato al suo arrivo in Italia, viene
processato nel nostro Paese e fra vari sconti di pena resta in
carcere solo un anno e mezzo. Inizia così la seconda parte della
sua vita, per gran parte in Italia, fra due matrimoni, tre
figli, improvvisi lutti, l'avvicinamento alla religione e i
silenzi intorno alla possibilità che ha avuto di tornare negli
Usa, dove il suo dossier è stato secretato dalla Cia. "La vita
di Raffaele è un collier di eventi incredibili che lo mettono
alla prova, un continuo morire e rinascere come succede con le
migliori anime" aggiunge il cineasta. E' una persona "di
un'umanità impressionante è quella la prima cosa che ti
colpisce. Ci si accorge del suo lato buio proprio perché la sua
parte positiva risplende così tanto. Il suo sguardo è presente,
ha una grande simpatia, è molto generoso, non si tira mai
indietro - sottolinea Infascelli che ora è al lavoro su una
serie documentaria ancora top secret, legata alla musica,
l'altra grande passione del regista -. Questo aspetto
probabilmente è stato usato da forze, entità, poteri, persone
che hanno sfruttato il suo coraggio e la sua irruenza, il suo
voler essere in prima linea". Essendosi speso "in maniera così
totale, ha subito dei danni. E' un essere umano ancora alla
ricerca di se stesso, e non lo nasconde, ne' vuole mostrarsi
risolto. Io so di lui ho lasciato le domande aperte, non c'è una
verità assoluta".
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